Salvatore Fiume: arte nomade, ossia l'arte della conoscenza

Nessun dubbio che Salvatore Fiume, nato in Sicilia nel 1915, sia l’artista più completo e conosciuto che Canzo possa vantare. E, anzi, che sia tra i più significativi uomini di cultura, in termini eclettici, del panorama novecentesco. Fiume è scrittore, pittore, scultore, architetto e scenografo. Un uomo di assoluta cultura, che ama raccontare e raccontarsi, in grado di lasciare la sua riconoscibile impronta in tutti gli ambiti in cui ha operato. Non è un caso che il suo primo successo arriva con il romanzo Viva Gioconda, un testo autobiografico basato sul valore dell’esperienza e della conoscenza, temi che saranno ricorrenti all’interno di tutta la sua arte.

Negli anni della sua formazione, dopo aver completato gli studi presso il Regio Istituto d’Arte del Libro di Urbino, Fiume ha la fortuna di trascorrere un breve periodo a Milano, dove entra in contatto con grandi intellettuali del calibro di Salvatore Quasimodo, Dino Buzzati e Raffaele Carrieri, destinati a diventare suoi sostenitori. Segue a questa esperienza il periodo trascorso ad Ivrea come art director per la rivista di Adriano Olivetti, uno dei più grandi progettisti industriali italiani dell’epoca, prima del trasferimento a Canzo nell’immediato dopoguerra. Qui Fiume conosce un luogo ideale, lontano dalla frenesia della città, silenzioso e riservato, cruciale per dedicarsi totalmente all’arte.

Fiume non è un’avanguardista. I suoi primi dipinti raccontano un forte rapporto con la tradizione italiana rinascimentale unita alle istanze della metafisica, il movimento nato nel primo dopoguerra dall’incontro a Ferrara tra Carlo Carrà, Giorgio De Chirico e Alberto Savinio. Da questi Fiume osserva uno spazio rigidamente geometrico, la solida volumetria degli oggetti e l’idea di mondi dominati da un profondo silenzio. Luoghi in cui non c’è teatralità ma mistero. Un’arte dal carattere onirico che rappresenta le fantasie dell’inconscio. Così la tradizione viene resa funzionale alle nuove istanze del Novecento, attraverso forme inorganiche che indagano sul rapporto tra pittura e scultura.

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Negli anni successivi alla sua prima mostra ufficiale, tenutasi nel 1949 presso la Galleria Borromini di Milano, Fiume studia con sincero interesse la fisionomia della figura femminile, prima di confrontarsi ufficialmente con la scultura. Ne consegue la rappresentazione di soggetti perlopiù solitari, con intenti seduttori, manipolatrici, attraverso uno stile che oscilla tra il postimpressionismo proposto da Gauguin e l’espressionismo di Modigliani. Basti osservare La ballerina, dipinto del 1967, per convincersi di questa ricerca sintetica. Il colore è puro, steso in modo piatto senza luci e ombre. Le linee di contorno sono molto nette e le forme molto semplificate. Il volto sembrerebbe richiamare lo stile dell’arte africana, oppure potrebbe essere una prima e non dichiarata allusione al Giappone, che Fiume aveva visitato proprio in quell’anno, e che successivamente avrebbe dato origine al vero e proprio Ciclo Giapponese.

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Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, la ricerca di Fiume, ormai giunto in fase matura e affermata, si completa seguendo i caratteri del Postmoderno. Inizia il gioco delle citazioni, la tendenza a recuperare grandi dipinti della storia dell’arte, riproposti talvolta in chiave ironica, talvolta in chiave provocatoria. Così afferma: “E’ notorio che il tempo corra in avanti e che l’umanità è costretta a corrergli appresso. L’artista invece vi può correre al contrario: correre sulla scia del tempo che è passato perché proprio in quello soltanto esistono le opere e i fatti che non (si) potrebbero trovare nel tempo avvenire perché non è ancora avvenuto”. Ecco allora che Fiume con queste parole sembra approvare completamente il concetto di nomadismo, inteso come totale libertà da parte dell’artista di ripercorrere la storia dell’arte a suo piacimento. In Fiume questa concezione si concretizza attraverso una ricerca della modernità intesa come reinvenzione del classico: confrontarsi con il passato per interrogarsi sul futuro dell’arte. Un’arte che non fornisce risposte ma interrogativi, lontana dal concettuale, basata sull’idea che tutto il figurativo può essere accostato.

In questo senso, esemplare risulta Incontro al vertice, realizzato nel 1987. Le tre figure rappresentate in primo piano, intente a giocare a carte, sono tutte frutto del citazionismo: sulla sinistra la figura di Filippo IV, dipinto da Velazquez nel 1635, a destra una donna picassiana in stile cubista e al centro l’angioletto di Raffello, rappresentato nel 1513 dal pittore marchigiano per la tela Madonna Sistina. Alle loro spalle, sullo sfondo, un paesaggio caratterizzato da una composizione astratta. E’ evidente che l’iconografia si rifaccia di un senso provocatorio: la natura viene indagata in relazione ai cambiamenti politico-culturali dell’epoca. I tre personaggi sembrano studiarsi a vicenda, ma convivono tranquillamente, disinteressati da ciò che li circonda.

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