MATTEO MARANI

-     Buongiorno Matteo. Partiamo dall'attualità e dal  coronavirus: cosa pensi dell’apertura degli stadi? Come è stata gestita l’emergenza nel mondo dello sport?

Sulla riapertura degli stadi preferisco non pronunciarmi. Secondo me non compete ai giornalisti, o comunque agli addetti ai lavori nel mondo del pallone, giudicare le decisioni che dipendono dal grado di pericolosità del virus.

Usando il buon senso, penso comunque che vadano fatte scelte a livello locale, ragionando per singoli territori come è stato fatto in Germania. Penso che questo criterio sia intelligente.

Bisogna essere onesti nel dire che ci siamo trovati tutti di fronte ad un problema improvviso e sconosciuto. Posto questo, se penso alla partita Liverpool-Atletico dello scorso 11 marzo, mi viene da pensare che forse la reazione della Uefa di fronte all’emergenza è stata piuttosto lenta

 

-       Arpad Weisz. Introduciamo questo personaggio sul quale sei riuscito a scoprire una storia incredibile, che forse ancora oggi pecca di essere troppo poco conosciuta.

E’ la storia di un allenatore di calcio degli anni ’30, che oltre ad essere un grandissimo tecnico ed aver vinto 3 scudetti (e mezzo) nel nostro paese, era di origine ebrea. Quest’ultimo aspetto gli costò la vita: dopo essere stato espulso dall’Italia si rifugiò in Olanda, sebbene in poco tempo venne raggiunto dai nazisti che occuparono anche quel territorio. Fu prima arrestato e condotto nel Westerbork, campo di transito per detenuti durante la seconda guerra mondiale. Poi venne  deportato nel campo di concentramento di Aushwitz, dove nel 1944 trovò la morte.

Rimane ancora oggi il più giovane allenatore ad aver vinto il nostro campionato, all’età di 34 anni, nel 1930 con l’Inter. E’ stato una figura di riferimento per tanti colleghi. Vittima, insieme alla sua famiglia, del contesto storico folle in cui viveva

 

-       Questa storia ci rende consapevoli di quanto lo sport sia ricco di valori sociali. In Italia si fatica molto a considerare lo sport un fatto culturale. Per quale motivo?

Io racconto spesso che mi sono laureato in Storia Contemporanea nei primi anni ’90, eppure già allora non studiai nemmeno una pagina sportiva. Purtroppo è un pregiudizio del mondo accademico quello di considerare lo sport qualcosa di inferiore. Devo dire che, nelle ultime generazioni, ci sono alcuni bravi ricercatori che stanno facendo lavori interessanti e guardano a questo mondo con interesse.

Io sono molto prudente quando i giornalisti affrontano la storia, perché è una materia che richiede particolari requisiti. Si tratta di uno studio e di una scientificità diversi. Bisognerebbe unire la capacità di ricerca degli storici e le competenze divulgative dei giornalisti. Questa sarebbe la soluzione migliore

 

-       Cosa ne pensi del Var?

Credo che il Var, come tutte le cose, sia uno strumento neutro: tutto dipende dal modo in cui viene utilizzato. E’ importante avere un regolamento che sia chiaro e comprensibile a tutti, in modo da evitare qualsiasi dubbio o polemica.

Siamo di fronte ad una generazione di arbitri che per la prima volta si confronta con questo mezzo, quindi già la prossima avrà maggiore esperienza e sarà facilitata. Ci vorrà dunque ancora del tempo per trovare un equilibrio giusto, sebbene penso  sia un sostegno indubbiamente utile. Da non confondere con la moviola in campo

 

-       “Storie di Matteo Marani” è un programma di inchieste sportive. Che lavoro c’è dietro?

“E’ un lavoro complesso che richiede mesi di tempo. Poi dipende molto dalle singole storie, considerando che alcune già le conoscevo grazie alla mia professione o agli studi universitari. Sono necessarie tante fonti, moltissimi documenti. Cerco di coordinare i lavori con due ragazzi, Andrea Parini e Fabio Fiorentino, che con me dividono il programma. L’obiettivo è andare aldilà del semplice racconto e trovare elementi innovativi che garantiscono originalità”

 

-       Il giornalismo è ormai immerso nell’era digitale. Cosa pensi dei social?

Non sono molto entusiasta del mondo social. Uso principalmente Twitter, mentre su Instagram ho un profilo privato.

I social sono utili e ogni tanto li consulto per cercare di capire i temi principali della giornata. Però richiedono tempo. Io studio molto. Lettura e ricerca richiedono ore.. L’analisi, ossia cercare di capire e andare in profondità alle cose, in generale è un compito molto impegnativo.

I social non mi piacciono principalmente perché ti rendono un personaggio. Io sono un giornalista, non un personaggio. Non voglio mettere la mia figura davanti al mio lavoro, agli argomenti che tratto o ai protagonisti. I social rischiano di portarti fuori da questo focus, quindi me ne sottraggo. Voglio stare un passo indietro a quello che racconto, mai davanti

 

-       Quali consigli ti senti di dare agli aspiranti giornalisti? Come valuti i corsi di giornalismo?

In assoluto, consiglio ai giovani di leggere molto, in particolare i classici, che permettono di sviluppare un vocabolario ricco. Avvicinarsi in generale alla cultura: cinema, musica, amici. Questo ti porta ad avere un’ apertura mentale che vale più di qualunque corso.

Avere moltissima curiosità è fondamentale. E’ una cosa che nessuno ti insegna ma senza il quale non si può fare nulla. Sapere il più possibile di tutto e mettere in relazione le cose. Oggi, ad esempio, non puoi fare il giornalismo sportivo senza avere basi di economia o diritto.

Non bisogna mai partire da noi stessi. Fare questo mestiere non è un atto di vanità. La differenza si fa nella preparazione del lavoro, non nell’uscita, nell’output di quest’ultimo. Per ogni pagina che scrivi mille devi averne lette, questo è il concetto chiave. Importante anche fare esperienza all’estero, perché oggi senza conoscere qualche lingua non si comincia neanche.

Io credo comunque che, davanti a tutto, valga lo spessore di ognuno di noi. Si tratta di esprimerlo al meglio in qualche settore. Non è tecnica è umanesimo”